Intervista: William Basinski (da Rumore 289, Febbraio 2016)

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WILLIAM BASINSKI
Ricostruire Arcadia a Los Angeles
di Elia Alovisi

Incontro William Basinski in un appartamento di Notting Hill, a Londra. “Questa casa è di Lauren Bon“, mi dice, “un’incredibile artista e architetto di Los Angeles. Mi fa stare qua quando sono in città.” Ed è proprio da una collaborazione tra i due che sono nati Cascade e The Deluge, i suoi ultimi due LP, due facce della stessa composizione. Ha quasi sessant’anni, Basinski, ed è raggiante. Se n’è ormai andato da New York e da Arcadia, il suo mitologico loft newyorkese dove videro la luce i suoi celebri Disintegration Loops, eterne ripetizioni di nastri smagnetizzati come colonna sonora dell’ultima ora di luce dell’11 settembre 2001 – una colonna di fumo a riempire lo spettro visivo e un suono morente a svuotare quello sonoro. Da allora si è trasferito in California assieme al suo compagno, James Elaine, dove colleziona macchine, gestisce la sua etichetta e continua a comporre e sperimentare. Ed è della sua nuova casa che iniziamo a parlare.

Ho letto che stai ricostruendo nella tua casa in California il setup che avevi a New York.
Sì! Non che stia cercando di costruire un monumento, voglio solo riavere tutti i miei synth. Alcuni hanno bisogno di un po’ di manutenzione. Ho un Voyetra [un synth messo sul mercato nel 1982, nda] messo così così: funziona, ma usarlo ora è interessante per tutte le stranezze che riesco a tirarci fuori. Per un po’ ho cercato uno studio a Los Angeles, ma è tutto così costoso… mi piace lavorare da casa, e avevamo una camera da letto in più che era solo spazio sprecato. Quindi ora sto lavorando a un sacco di divertenti progetti segreti assieme a Preston Wendel, il mio fantastico ingegnere del suono. È bravissimo ad usare Ableton, insegna qualcosa a me e io qualcosa a lui.

Che relazione hai con la tecnologia e con i software di produzione?
Sai, è difficile insegnare nuovi trucchi a un cane vecchio, ed è esattamente quello che sono. Non sono mai stato così interessato alla strumentazione. Ebbi la possibilità di costruire il mio primo studio ad Arcadia con i soldi che prendemmo quando venimmo sfrattati dal loft in cui vivevamo prima – lo demolirono e ci mandarono via. All’epoca furono le persone con cui suonavo a consigliarmi su cosa comprare, io mi occupai solo del design della stanza. Arcadia è rimasto nostro fino al 2008. James, che fa il curatore all’Hammer Museum di Los Angeles, era in California a lavorare. Con l’arrivo degli anni 2000 mi sono reso conto di non voler vivere con tutta quella gente e ho iniziato a passare sempre più tempo a LA. Negli anni, il loft è diventato sempre più costoso da mantenere dato che ci era stato affittato come spazio commerciale. Tornavo a New York ogni qualche mese per spaventare tutti, farli pulire e lavorare nel mio studio. Poi ce ne siamo andati, e ora stiamo cercando di rimettere il tutto in sesto. Il punto è che la stragrande maggioranza delle cose che potevo fare con quella roba è fattibile con un portatile, perché ora è così che vanno le cose [ride]. Se sai come farlo.

Da dove nascono Cascade e The Deluge, e che ruolo ha avuto l’acqua nella loro concezione?
Lo splendido loop di pianoforte su cui si basa Cascade è molto vecchio. Mi era sempre piaciuto molto e non ci avevo mai fatto niente. L’ho riscoperto un paio d’anni fa e ho deciso che sarebbe stato la base del mio progetto successivo. Era il 2013, e mi ero trovato a lavorare con Lauren Bon, che era impegnata con questo enorme progetto in occasione del centenario dell’apertura dell’acquedotto che serve Los Angeles. Nel 1913 deviarono il corso di un fiume che confluiva nell’Owens Lake, un lago salato in Sierra Nevada, portandolo per 209 miglia fino alla città. È grazie a quest’acqua che la città è stata costruita. E c’è una sezione dell’acquedotto chiamata The Cascades, un dislivello in cui l’acqua cade su una scalinata di cemento. Fu dove William Mulholland, l’ingegnere che gestì il progetto, disse: “Accendetelo!”

Oggi l’Owens Lake è stato prosciugato. È così arido che si sono formate polveri tossiche su quello che era il fondale, e ora queste vengono soffiate via dal vento e avvelenano le bellissime zone circostanti, che sono per grossa parte riserve di nativi americani. E queste persone non possono controllare la loro acqua, che è proprietà della LA Water and Power Corporation. Lauren voleva quindi lavorare sull’idea dell’origine dell’acqua, preparare un’installazione, e mi ha chiesto di comporre della musica per il suo progetto.

In che cosa consisteva?
L’installazione si chiamava One Hundred Mules Walking the Los Angeles Aqueduct. Un gruppo di 100 muli, accompagnato da qualche persona, a camminare dal deserto fino a Los Angeles seguendo il corso dell’acquedotto. Ci hanno messo un mese, e il tutto è stato filmato per un documentario. In quel periodo mi sono reso conto di quanto il ritmo armonico del loop di Cascade fosse interessante. Non saprei come inserirlo, a livello musicale, in un tempo. Ha come un effetto melodioso. A cascata, appunto. Ad ogni modo, il loop era molto vecchio e rovinato e ci abbiamo lavorato davvero molto per farlo suonare bene in studio. Ma, grazie a Preston, siamo riusciti a renderlo una sorta di organismo vivente, qualcosa di cristallino. Ora: avrei potuto suonarlo dal vivo così com’è, ma ho trovato un modo per rendere la cosa più divertente. Ho creato una serie di loop di diversa lunghezza fatti solo di feedback che crescono molto lentamente, creando tensione su diverse frequenze per poi svanire lentamente, fino a un dénouement fatto di tanti piccoli, lenti, melodiosi loop di pianoforte interrotti da una stridente sezione di archi che conclude il tutto. E questa evoluzione mi ha ricordato un’alluvione, da cui il titolo The Deluge [Il Diluvio].

Cosa ti porta a comporre musica così evanescente, leggera?
Faccio musica per me stesso, e questa è la musica che mi piace. Faccio venire spesso un chiropratico a casa mia per farmi aggiustare dopo essere andato in tour. E per l’ora e mezza di massaggio che mi fa metto su Variations for Piano and Tape, e alcune delle mie composizioni preferite. Uso un iPod di 10 anni fa, con tutto il mio lavoro di allora. Non ascolto molta musica se non la mia. James è il tipo di persona che sente qualcosa che gli piace, la cerca con Shazam, la compra e se la mette sul cellulare. Io non sono mai stato un consumatore di musica, né ho mai acquistato dischi. Sono sempre stato circondato da persone che mettevano dischi, e io ascoltavo. Uso le mie orecchie per creare, per lavoro, ed è difficile usarle per altro.

Pensi che il rumore abbia invece una sua valenza artistica?
Non mi piace la musica noise, specialmente a volume alto – perché ti distrugge le orecchie, e le mie mi servono per comporre musica tranquilla (ride)! Ma mi piacciono certi rumori, nel giusto contesto, anche all’interno del mio lavoro. Il rumore è crudo, granuloso, è parte della vita.

Quando Nicolas Jaar ti ha chiesto di partecipare alla sua Other People’s Imaginary Feast [un’iniziativa in cui diversi artisti contribuivano con un suono a una composizione comune], infatti, hai mandato il rumore di un motore.
Sì! Era una Dodge Texan del 1956… [Tira fuori il cellulare e inizia a farmi vedere foto della sua collezione di macchine d’epoca] Un’edizione limitata. Ha un tubo di scarico particolare che fa un rumore molto forte. Nico mi aveva chiesto di fare questa cosa, James l’aveva accesa ed era come se stesse facendo le fusa. Quindi gli ho detto, “Lasciala riposare per un minuto, conta fino a dieci e poi schiaccia sull’acceleratore e vai”. E quello gli abbiamo mandato. Era il 4 luglio, nella nostra casa di campagna in Texas. [Inizia quindi a parlarmi delle varie macchine d’epoca che ha visto in tour, con relative foto.] Amo l’arte, il design e la bellezza. Sono cresciuto nei primi anni 60 e i miei zii avevano queste enormi macchine bianche e rosse, ed erano come razzi spaziali… mio padre lavorava per la NASA, sai, e queste splendide macchine americane erano ovunque.”Spettacolari!” [Detto in italiano].

Ecco, tuo padre – che ricordi hai di quegli anni, e della NASA?
Era davvero eccitante. Guardavamo i lanci sulla TV in bianco e nero. Poi ci trasferimmo in Florida, nei miei anni delle medie, mentre stavano lavorando al viaggio verso la luna. Mio padre lavorava per un appaltario su uno degli aspetti del modulo lunare. Era assurdo! Vedevamo i razzi partire dalla spiaggia in fondo alla via dove stava casa nostra. Cape Canaveral era a 30 miglia di distanza. A volte andavamo lì a vederli, ma potevamo tranquillamente restare in spiaggia. Una volta, di notte, guardavamo dal nostro cortile il lancio di un satellite che andò fuori controllo e dovettero abortire la missione. Esplose, e il cielo si fece interamente arancione.

Non trovi sia strano come, in un’epoca di interconnessione come la nostra, il lavoro del musicista sia invece sempre più solitario? Per dire, è facile scambiarsi file, ma spazi collaborativi fisici come Arcadia sono sempre più rari.
È lo stesso processo che succede con mezzi diversi. Il problema, però, è economico. New York è molto più costosa adesso rispetto al 1980, quando mi ci ero trasferito. Bastava risparmiare duemila, tremila dollari per arrivarci, prendere un appartamento o un loft e avere abbastanza tempo per trovare un lavoro. Ma non è più così. Devi avere un fondo fiduciario per riuscirci. La gente rimane nelle proprie città, e alcuni creano network locali, ed è una cosa che va incoraggiata. In Europa, soprattutto, organizzano festival che riempiono hotel e bar, la gente fa spese, prende treni, aerei… è molto intelligente lasciar sviluppare cose come queste. In America è tutto più lento. Hai una band, compri un van, suoni in un bar e guidi fino alla data successiva. Niente di più.

Il processo creativo è qualcosa di solitario, nella tua concezione?
Sì, devi solo arrivare fino in fondo. Inoltre… sai com’è quando ti dicono come tuo figlio sta venendo su ancora prima che sia venuto al mondo? MMMM [scherzosamente infastidito, nda]! È un problema matematico. Sei nel tuo laboratorio, con la tua lavagna… alcune composizioni iniziano la loro esistenza con un’esplosione, come splendide stelle. ” È finita!”, dici, “Hey! Ascoltatela!” E sai che andrà tutto bene. A volte devi prenderti un po’ di tempo, allontanarti da un suono per mesi, o anni. E poi tornare. L’anno scorso, registrando Cascade e The Deluge, mi sono reso conto di quanto Preston mi abbia aiutato. Ho modi per fare ciò che voglio, ma lui conosce Ableton da capo a piedi ed è grazie a lui se questa composizione è quello che volevo fosse. Siamo andati un po’ avanti e un po’ indietro, per un po’, perché sentiamo le cose in modo diverso. Alla fine abbiamo capito come fare, ma ho quasi buttato via il tutto, per tre volte.

Poi ho iniziato a lavorare a un nuovo progetto partendo da questo Voyetra di cui ti parlavo. Era come mettere la chiave nel cruscotto dell’Enterprise dopo 50 anni. E funzionava. Ho iniziato a usarlo partendo dal punto in cui avevamo finito Cascade, dal drone con cui si conclude. Poi ho iniziato a lavorarci, mi stavo divertendo, e ho pensato: “Sì, quant’è facile! Una nuova composizione!” Ho mandato una demo a James, e lui mi fa: “Mah, non so, assomiglia a tutto il resto!” [Gridando scherzosamente, con voce stridula:] “COOOSA? CHE COSA NE SAI DI TUTTO IL RESTO? NON COMPRI UN DISCO DAGLI ANNI 70! NON SAI CHE COSA STAI DICENDO! CAZZO!” Appena dopo, Rossano Polidoro [in arte Triac] mi ha mandato il suo nuovo disco. Voleva sapere se conoscevo qualcuno che poteva pubblicarlo. L’ho ascoltato e… oh merda, era fantastico. E assomigliava davvero tanto al mio nuovo progetto. Come diceva Salvador Dalì, “STANNO PLAGIANDO I MIEI PENSIERI!” Sono fottuto, ora tutti fanno quello che faccio meglio di come lo faccio. Non so più cosa fare! Seriamente, continuo a provarci. Comunque, ho detto il tutto a Rossano recentemente – e ho chiamato Richard Chartier, che ha pubblicato l’album con la sua etichetta, la Line. E ora sono tutti felici.

Che cosa ti ha insegnato gestire la tua etichetta, 2062 Records?
Che è difficile fare soldi [ride]! Fare tutto da solo è l’unico modo in cui posso pagarmi le bollette. Lavorare ad un LP è un processo costoso. Devi produrlo, pagare il graphic designer, lo stampatore. E se vuoi fare le cose per bene, ti trovi a pagare di più. Vuoi dei vestiti di alta moda? Paghi il prezzo per un vestito di alta moda. Non lo puoi scaricare da Internet, capisci? Non puoi avere una borsa di Vuitton gratis. Comunque, qualche anno fa la situazione era abbastanza scoraggiante, con l’ascesa del filesharing. Ora, mi sono accorto che chi apprezza il mio lavoro lo fa fino in fondo. Sa che se verrà sul mio sito e comprerà un disco da me mi darà il maggior ricavo, e riceverà una mia lettera di ringraziamento. Cerco sempre di servire i miei clienti e dargli il servizio migliore che posso. La mia è un’etichetta-boutique. Sono lì! Come quando avevo il mio negozio di usato, Ladybird – ero lì, di persona.

Immagino che i Disintegration Loops abbiano ormai, per te, un significato diverso rispetto a quando li hai composti. Sono diventati un peso o sono sempre qualcosa di cui vai orgoglioso?
Non definirei i Disintegration Loops un peso, ecco. L’11 settembre è un enorme punto di domanda. La storia ufficiale è una stronzata colossale, e ho i miei problemi ad accettare tutta quella roba. Non ci credo, né ci credono gli scienziati o gli ingegneri. È un argomento spinoso, per me. Io… volevo solo dire qualcosa sul nostro mondo. Jacqueline Kennedy portò per tre giorni il suo cappotto sporco del sangue e delle cervella di suo marito. Ci provavano, a farla cambiare. Nella fotografia in cui Lyndon Johnson sta facendo il giuramento per diventare presidente sull’Air Force One lei è lì, con il suo vestito insaguinato, accanto a lui. Avevano appena ucciso suo marito. E disse, “Voglio che tutti vedano cos’hanno fatto”. Voglio dire… Mi piacerebbe sapere la verità. Sapere chi ha perpetuato quella cospirazione di cui sappiamo, invece, i motivi. Ma ci sono troppe cose da dire. Sono solo onorato di aver potuto offrire una sorta di sollievo, al momento giusto, a chi ha sofferto un dolore così grande. A tutti noi. Ed è qualcosa che mi è stato donato. Qualcosa di definitivo. Lo stavamo ascoltando, appena prima che il mondo cambiasse. Non mi aspettavo diventasse la colonna sonora della fine della civiltà. Ma è quello che è.

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